08 Aprile 2020
In ricordo di Alberto Arbasino
NEWS
di Roberta Clerici
Il 22 marzo 2020 è mancato Alberto Arbasino, al termine di quella che viene comunemente definita una lunga malattia. Innumerevoli sono stati gli articoli apparsi sulla carta stampata e nel web che ne hanno ricordato le opere letterarie, l’impegno civile, la carriera politica; e persino quel suo stereotipo della “casalinga di Voghera” (sua città natale dove è anche deceduto), diffusosi rapidamente e divenuto oggetto nel tempo di comprensibili sentimenti di indignazione, ma anche di convinte giustificazioni.
Noi qui desideriamo però ricordarne la laurea in Giurisprudenza, conseguita nel 1955 presso la nostra Università, e la sua – pur brevissima – successiva permanenza nell’(allora) Istituto di Diritto internazionale e straniero.
Alberto Arbasino, che era nato il 22 gennaio 1930, a metà degli anni Cinquanta ebbe il privilegio di avere come Maestro e relatore della sua tesi di laurea Roberto Ago, uno dei massimi esponenti della scienza internazionale, il quale aveva creato il suddetto Istituto e che in quel periodo aveva affiancato ai suoi rilevanti studi sul c.d. diritto internazionale pubblico quelli relativi al fenomeno dell’organizzazione internazionale. La presenza e le opere di questo studioso nel nostro Ateneo sono rievocate da Riccardo Luzzatto nel suo saggio dedicato a “Gli internazionalisti”, nel volume “Gli 80 anni della Facoltà di Giurisprudenza” (Giuffrè, Milano, 2006), edito sotto gli auspici dell’Algiusmi e da me curato.
Proprio nel 1956 Ago, a causa dei suoi molteplici impegni all’interno delle più prestigiose Istituzioni internazionali, preferisce tuttavia trasferirsi a Roma, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza. Arbasino, che aveva già trascorso un periodo di studio presso la rinomata Facoltà di Sciences Politiques a Parigi e debitamente frequentato i corsi estivi dell’Accademia di diritto internazionale dell’Aja (tappa obbligata per i giovani studiosi promettenti), segue il Maestro nella nuova sede.
Ma qui inizia a maturare un certo suo distacco dal mondo universitario, che nasce da una innegabile delusione per il nuovo ambiente, da lui stesso lucidamente rievocata nel ben noto romanzo “Fratelli d’Italia” (Feltrinelli, Milano, 1963, e successive edizioni con altre Case editrici). Da un lato, emerge la constatazione che i professori “più bravi hanno cattedre e cariche di prestigio nelle grandi istituzioni internazionali” e perciò trascorrono molto tempo all’estero, lasciando così i giovani assistenti soli “a far lezioncine per settimane… ogni volta a una platea diversa”; dall’altro, affiora perciò una sorta di acre frustrazione verso l’eterogeneità del pubblico studentesco e di quanti all’epoca gravitavano comunque nei locali dell’Ateneo, dipinti in modo impietoso e con una connaturata nota di snobismo (“La conosci l’Università di Roma? Non andarla a vedere!... roba nata già squallida e scomoda… fra casi umani e spacci e suk non ancora raggiunti da una qualche cultura non rustica, in tanti secoli di Roma…).
Malgrado un successivo soggiorno di studio delle relazioni internazionali negli Stati Uniti presso l’Università di Harvard, Alberto Arbasino abbandonerà quindi la carriera accademica nel 1965; né risulta aver lasciato neppure un breve saggio su quei temi del diritto internazionale che pure all’inizio lo avevano largamente attirato. D’altro canto, fin dal 1955 aveva iniziato il suo fecondo percorso di narratore pubblicando su una rivista il suo primo racconto (“Distesa estate”) che a distanza di due anni entrerà, con altri, nella raccolta “Le piccole vacanze” (Einaudi, Torino).
Del suo periodo universitario rimangono tuttavia alcune recensioni, mai puramente descrittive, pubblicate nel volume VIII-1956 dell’annuario “Comunicazioni e Studi” dell’Istituto milanese, fondato (come l’Istituto stesso) da Roberto Ago. Val la pena di ricordare che, al termine della recensione di un’opera del 1956 di J. A. Houston concernente l’atteggiamento degli Stati appartenenti al c.d. Gruppo latino-americano in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, già si palesa la caustica lucidità e un certo disincanto del pur giovane internazionalista neo laureato, allorché si domanda in chiave retorica “fino a che punto ha importanza ciò che si svolge in Assemblea generale”; e se “non si risolvono piuttosto altrove i problemi internazionali che veramente contano, per cui la potenza militare e industriale conta più che le astuzie procedurali e la somma dei voti”. A dispetto della carriera all’epoca intrapresa e poi abbandonata, Arbasino sembra maggiormente incline all’inquadramento dei problemi in una prospettiva da politologo cultore delle relazioni internazionali piuttosto che da studioso della vita giuridica internazionale.