di
Massimo Burghignoli, avvocato del Foro di Milano
Sette scienziati, ricercatori, docenti universitari, fra i nomi migliori della ricerca oncologica, sono stati indagati dalla Procura milanese per falso in scrittura privata (485 c.p.); falsità informatica (491 bis c.p.) e truffa ai danni dello Stato (640 c.p.). Il 21 gennaio 2016 tutti costoro hanno appreso dall’indagine da cinque simultanee perquisizioni presso l’Istituto Nazionale Tumori, l’Istituto Oncologico Europeo, l’IFOM, l’Istituto Humanitas, e l’A.I.R.C., con sequestri probatori di svariati materiali scientifici: quaderni di laboratorio, files informatici.
L’ipotesi accusatoria nacque dall’indagine, “esclusivamente informatica”, di immagini rappresentative di esperimenti con “
elettroforesi su gel” allegate a lavori scientifici pubblicati su autorevoli riviste scientifiche internazionali, che notoriamente assoggettano i lavori proposti per la pubblicazione alla c.d.
peer review, e che riscuotono un elevato
impact factor. Secondo un
software adoperato dai consulenti della Procura, alcune di queste immagini avrebbero subìto delle manipolazioni. Con varie selezioni, si è partiti da 159 articoli con immagini, scendendo poi ad 86 di esse in quanto riferite a pubblicazioni successive all’anno 2000, ed ancora a 32 contenenti almeno una immagine di interesse. Soltanto 25 su queste 36 vennero ritenute oggetto di manipolazione da un primo consulente, proprietario del
software di analisi. Un secondo Consulente della Procura, esperto più specificamente di
forensic imaging, restrinse ancora a 16 le immagini presuntivamente manipolate.
L’inchiesta proseguì con richiesta di informazioni presso il Ministero della Salute ed il M.I.U.R. sui finanziamenti ricevuti in conseguenza degli articoli con immagini manipolate, e durò circa 4 anni, per poi concludersi nell’autunno scorso con una richiesta di archiviazione da parte dei Pubblici Ministeri, articolata in 68 pagine.
In breve, l’accusa ritenne che la depenalizzazione della fattispecie di cui all’art. 485 c.p. facesse venir meno il reato ipotizzato, e che la falsità informatica (491 bis c.p.) non fosse pertinente; ma ritenne, soprattutto, che non fosse stata raggiunta la prova:
- della capacità ingannatoria delle immagini modificate;
- del nesso causale fra falsificazione delle immagini, nonché fra singoli lavori scientifici, ed erogazione di finanziamenti alla ricerca (che non viene effettuata
ad personam);
- del dolo.
Concludeva l’accusa per l’irrilevanza penale dell’eventuale danno al patrimonio pubblico (a sua volta, per il vero, non provato, più che irrilevante).
L’istanza di archiviazione, ritenendo “
provate le alterazioni”, sottolineava però l’opportunità di sanzionare penalmente il c.d. “
falso scientifico” come reato di pericolo, sul modello delle frodi assicurative (642 c.p.), ovvero dell’indebito conseguimento di erogazioni pubbliche (316 ter c.p.), ovvero della frode sportiva (legge 401/1989). Ovviamente,
de jure condendo.
Non mancò l’opposizione all’archiviazione da parte del Codacons e del Tribunale per i diritti del malato, con successiva memoria di resistenza del P.M., e conseguente udienza avanti al G.I.P.
Benchè tutte le parti concludessero per l’archiviazione (eccetto, con argomenti “di stile”, Codacons e Tribunale per i diritti del malato), la discussione si protrasse per un intero pomeriggio, soprattutto perché alcuni degli indagati colsero l’occasione per difendere la propria onorabilità personale e scientifica, seriamente messa in discussione dall’inchiesta quadriennale e dal suo contorno di informazione giornalistica, il più delle volte unilaterale.
Il decreto di archiviazione, di ben 44 pagine, venne pubblicato il 21-11-2019 e passò in diligente rassegna tutte le argomentazioni.
La G.I.P. si è fatta carico di accertamenti sovrabbondanti rispetto alla mera esigenza di disporre in base ad una istanza di archiviazione del P.M., verisimilmente per l’esigenza di ripristinare in qualche modo l’onorabilità degli indagati, cui costoro avevano dedicato ampie deduzioni in udienza.
Innanzitutto ha esordito affermando che “
A prescindere dalla intervenuta depenalizzazione del reato di falsità in scrittura privata di cui all’art. 485 cp, occorre precisare che gli indagati non hanno posto in essere alcuna attività di falsificazione” (ns. sottolineatura)
. Ed ancora: “...
in nessuno dei casi oggetto del presente procedimento i Consulenti dell’Ufficio Requirente all’esito dei loro accertamenti hanno affermato che le immagini analizzate siano state sottoposte ad una correzione attraverso “photo-shop”, tecnica che attualmente si trova nella generica disponibilità di tutti attraverso l’uso di software di fotoritocco o di editing video. Nessuno degli indagati al fine di convalidare l’ipotesi scientifica formulata ha forzato l’esito dell’esperimento eseguito in laboratorio, in modo da far sembrare che l’esito di esso fosse differente rispetto a quello effettivamente risultato in laboratorio” (ns. sottolineatura)
.
La G.I.P. neppure ha condiviso l’auspicio dei P.M. di realizzare una fattispecie penale
ad hoc:
“... ritiene sommessamente questo GIP che lo strumento della sanzione penale (e dunque di procedimenti lunghi, dispendiosi, faticosi, portati avanti inevitabilmente da contrapposti consulenti tecnici che da una parte e dall’altra ostenderebbero le loro competenze ed i loro dicotomici convincimenti) debba rimanere la ‘extrema ratio’ ... Non appare improprio azzardare che in questo campo la integrità e la correttezza deontologica della Ricerca potrebbe essere affidato – anziché alla magistratura – alla stessa Comunità Scientifica, e potrebbe essere conseguito in modo più semplice, efficace e razionale dello strumento della sanzione penale, utilizzando “a contrario” lo stesso strumento che la Ricerca utilizza per attribuire valore agli articoli scientifici: l’impact factor.” (sottolineaturn nel testo).
Forse per
lapsus, forse per coerenza formale con l’argomento, l’uso delle maiuscole, nel decreto, è riservato a “Ricerca” e “Comunità Scientifica”. Vi si legge anche una maturata sfiducia nei consulenti tecnici che “
ostendono le proprie competenze ed i propri dicotomici convincimenti”.
Peraltro, nel caso di specie, va detto che i consulenti dell’accusa non esaminarono (non lessero) nessuno dei testi accompagnati dalle immagini incriminate, quasi come se queste ultime fossero autosufficienti a dimostrare l’ipotesi accusatoria, ed il testo di un lavoro scientifico, che reca passo passo la procedura dell’esperimento, risultasse invece del tutto pleonastico: circostanza, questa, che costituisce il maggior punto interrogativo, dei molteplici sollevati da questa vicenda.
E’ pacifico che il diritto non sia una scienza esatta, ma è molto meno diffuso il convinvimento che neppure la Scienza lo sia, progredendo per prova ed errore; cosicchè, ci si attende dalla Scienza molta più certezza di quanto non possa fornirne in concreto. Cosicchè, da un incontro meccanicistico fra due discipline non scaturisce la giustizia, se non vi interviene il
peritus peritorum con il proprio insostituibile discernimento e senso critico, rifiutando di adagiarsi passivamente sulle conclusioni dei consulenti, tanto più quando i consulenti assumono
a priori solo una piccola parte delle informazioni loro disponibili su un argomento – come le immagini a preferenza del testo – riducendo in opposta misura l’attendibilità della propria analisi.
E’ inevitabile il ricordo del caso di Ilaria Capua; e non dobbiamo quindi meravigliarci se nelle assemblee legislative si studino norme atte ad evitare non solo una responsabilità sostanziale, ma addirittura il rischio del relativo processo di accertamento, in quanto tale: Mittal e “scudo penale” per ILVA di Taranto, e, in questi giorni, lo “scudo anti covid19” per gli operatori sanitari (fin qui ragionevolissimo), ma poi esteso surrettiziamente, a colpi di emendamenti e sub-emendamenti, alle aziende ospedaliere e direzioni sanitarie, fintantochè l’ira dei sindacati di medici ed infermieri non ha fermato l’iter dell’intero provvedimento (cfr.:
https://www.ilsole24ore.com/art/la-beffa-scudo-medici-che-protegge-loro-capi-cause-i-ritardi-virus-ADQoJFI). Ci domandiamo allora: occorre, è giusto, è ragionevole, scrivere delle leggi per difenderci da un processo?
Milano, 11-04-20